Cinque anni in uno

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di Alessandro Baricco, pubblicato su IL POST.ITCon la faccia di gente uscita dalle cantine dopo il tornado, ci siamo messi a riaprire un po’ tutto. Lo facciamo lentamente, imponendoci regole commoventi, come quelli che contano gli scalini quando tornano a casa dopo l’infarto. Noi adesso torniamo a casa alle 23 invece che alle 22.
Personalmente, è un po’ che sto a guardare, ma senza veramente riuscire a partecipare alle cose. Non so, c’è qualcosa che non mi torna. A differenza di molti altri, trovo che l’idea di ricominciare da dove c’eravamo interrotti non sia affatto così attraente; spesso mi sembra, semplicemente, impraticabile; talvolta, scema. È successo qualcosa, nel frattempo, e se dovessi dire perché me ne accorgo, non saprei farlo altrimenti che registrando una sensazione che non mi molla più: sembra tutto così vecchio. Tutto quello che ricominciamo sembra vecchio, è meno di quello che istintivamente mi aspetto, è in ritardo sui miei desideri.
Certo, c’è anche la possibilità che sia diventato pazzo. Così ne ho un po’ parlato con gli altri. Un amico mi ha raccontato questa: gli telefonano entusiasti per dirgli Dai andiamo a teatro, Fichissimo, lui risponde, hanno riaperto i teatri, andiamo a teatro, cosa danno? Macbeth. Pausa. “Macbeth? Ancora?” (Poi è tornato in sé, capendo l’assurdità di cosa stava dicendo, ma ormai era troppo tardi, la cosa era accaduta. A teatro, poi, non è andato). Io, nel mio piccolo, sono passato davanti a un cinema, e rendendomi conto che erano mesi che aspettavo di ritornarci, ho fatto per entrare, così, da solo, senza starci troppo a pensare, giusto per passione. Ma poi c’erano i manifesti fuori, proprio come prima, semimorti, se così mi posso esprimere, un po’ troppo immobili, ecco, e d’altronde i titoli erano quelli di cui mi sembrava di sapere già tutto, oltretutto erano quattro e il numero mi è sembrato lì per lì ridicolo, esangue, anemico: allora tanto vale uno, mi son detto. Ho gettato uno sguardo dentro e, in fondo, ho visto la cassa, nella penombra, era proprio come prima, credo di avere perfino intravisto certi divanetti che mi ricordavo, con quel colore amaro e le macchie di qualcosa. Mi sono immaginato il biglietto di carta, e che dovevo scegliere il posto, e i soldi con il resto. Tutte cose a cui sono affezionato, per carità, ma che in quel momento, ecco, sembravano un po’ ritornate da un passato sepolto, come quando rivedi anni dopo la tata che avevi avuto da bambino, e certo ci sei così affezionato, però non è che poi hai tutte queste cose da dirle. Così ho esitato un attimo. Ho finito per guardarmi intorno. C’erano altri, lì, che stavano entrando, o uscendo, non so, ma erano lì davanti, era pomeriggio, ed erano per così dire una parte del cinema. Be’, anche loro, giuro, erano così tremendamente tardivi, erano evidentemente il rimasuglio di qualcosa che era passato, le scarpe, il modo di appoggiarsi al muro, il taglio di capelli. Ce n’erano due che fumavano. Per un attimo ho pensato che fossero lì da anni, che non si fossero mai mossi da lì. Istintivamente, mi sono guardato riflesso nella vetrina: ero tardivo anch’io. Di rado mi sono visto così sorpassato. Non guardatevi nelle vetrine dei cinema, non fatelo. E insomma, alla fine mi è venuto in mente questo: c’è una frase che martella invisibile in tutte le nostre teste, e la frase è: oh, ma dopo il culo che mi sono fatto la ricompensa sarebbe questa?, cioè, voglio dire, io sono sopravvissuto, cazzo, e adesso tutto quello che avete da offrire è questo?, davvero io sono sopravvissuto per tornare a sedermi su quei divanetti? Ma almeno rifoderateli, per la miseria! Più o meno, ecco. Ci aspettiamo una ricompensa. Ci aspettiamo quanto meno che, usciti di galera, ci vengano a prendere con una macchina nuova.
Non credo che sia una perversione solo mia. Ho controllato, ce l’ha un sacco di gente. Così mi son messo a studiarla meglio, e mentre tutti intanto riaprivano trionfalmente le cose, io stavo a guardare, e a furia di guardare mi sono reso conto che la faccenda della ricompensa era solo la punta dell’iceberg, giuro, aveva tutta l’aria di essere la piccola parte visibile di un fenomeno assai più monumentale, qualcosa che riguardava una certa impensabile anomalia nello scorrere del tempo, quasi un deragliamento nella contabilità dell’accadere. Per quanto potesse sembrare assurdo, le cose non sembravano vecchie: lo erano, cavoli. Ma di anni. Di tanti anni. Era passato un sacco di tempo, in un attimo, e adesso era tutto tremendamente invecchiato. Ci ho pensato un po’ e poi ho disegnato una piccola teoria, che qui offro a chi ha da riallacciare qualcosa interrotto mesi fa, fosse l’educazione di un figlio o la gestione di una bocciofila. È una teoria che potrà sembrare fantasiosa, ma giuro che invece non è nemmeno una teoria, per me è diventato un esercizio molto pratico, utile a capire come mai, nonostante le apparenze, non c’è più niente che funziona come prima, e il prima non esiste più. Eccola.
Non so perché, e non mi interessa saperlo, ma, credetemi, sono passati cinque anni in uno. Come in un racconto di Philip K. Dick, s’è formata una crepa temporale e lì dentro abbiamo vissuto cinque anni in uno. Dunque, vorrei avvertirvi, siamo nel 2025. Se detta così suona come una boiata, la formulo in modo più razionale. Provate a fare questo ragionamento: se non ci fosse stata alcuna pandemia, e fossimo semplicemente andati avanti per la nostra strada, come più o meno pensavamo di fare, dove saremmo arrivati nel 2025? Ho la risposta: nel punto in cui siete adesso. Servono esempi? Provo. Se tutto fosse andato normalmente, nel 2025 saremo arrivati a usare i device digitali quanto li usiamo adesso. Molti sarebbero arrivati allo smartworking, avremmo fatto la spesa on line, saremmo finiti a fare lezione di spagnolo con WhatsApp e a fare palestra stando davanti a uno schermo in casa. Molti di noi, in cinque anni di ragionamenti e serate difficili da interpretare, sarebbero tornati dalla moglie/marito, o sarebbero andati a vivere con un uomo/donna: è dove sono adesso. Facilmente, e dopo chissà quanti governi, avremmo richiamato Draghi e messo Leu e Salvini a governare insieme. Saremmo arrivati a convertire la salvezza del pianeta in un business, e Greta Thunberg nell’eroina di qualsiasi ufficio marketing. Molti anziani sarebbero, com’è inevitabile, mancati: l’avrebbero fatto in cinque anni, e non in un anno solo. I maggiori club calcistici d’Europa avrebbe fondato la Super League, e avendo cinque anni per abituare il mondo, ci sarebbero riusciti. Saremmo tutti cinque anni più vecchi, o maturi, o grandi, o cresciuti, o vivi o morti. Saremmo nel 2025, e saremmo dove siamo adesso.
Ho capito che la cosa è ulteriormente incasinata da un dettaglio non da poco: l’incantesimo non ha funzionato perfettamente, per cui ci sono dei pezzi di mondo che sono rimasti fuori dall’accelerazione. Tipo i pezzi di prato dove non arriva l’irrigatore. Quelli stanno ancora nel 2020. Sono dappertutto, e alle volte sono così piccoli che a prima vista non li vedi. Ce ne sono perfino in ognuno di noi, come organi addormentati. Faccio un esempio: questo articolo. Quel che accade è che io posso stare davanti a un cinema come un uomo del 2025 (quindi in imbarazzo), ma poi mi metto a scrivere come il me del 2020 (si sarà almeno notato, comunque, che lo faccio per una testata diversa…). Sento già la reazione di molti: ma come?, dopo che mi son fatto tutto ‘sto culo siamo ancora agli articoli di Baricco? Li capisco. Ma ormai ho cominciato e allora finisco.
Sarò sintetico: siamo finiti, in un anno, nel 2025, e purtroppo l’abbiamo fatto in modo disordinato e caotico, lasciandoci dei pezzi indietro. Dunque c’è una specie di linea temporale da ricomporre, allineandola più presto possibile al 2025: chi ci riesce per primo, vince. Chi non vede il problema è destinato alla scomparsa. Chi lo vede e sa gestirlo erediterà la Terra. Nel dubbio, rifoderare i divanetti, subito.

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Fonte Il Blog di Beppe Grillo

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