La sentenza Rostagno e l’ora di una legge contro i depistaggi

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“Chiddu ca varva bianca ava a finire’”. E’ la spietata condanna a morte pronunciata dal boss Francesco Messina Denaro, il quale – parlando con un mafioso della sua zona – aveva decretato la fine del giornalista “con la barba”. Quello che ogni sera, dagli schermi della piccola televisione trapanese RTC, era in grado di spiegare la mafia, di denunciarla, di svelare le sue connessioni con il potere, di coinvolgere i cittadini, di far tremare i polsi ai mafiosi. E non solo a loro.

Ed è così che Mauro Rostagno – giornalista d’inchiesta, volto del Tg locale ma anche fondatore della comunità di recupero di tossicodipendenti “Saman” – il 26 settembre 1988 in Valderice veniva raggiunto alle spalle e alla testa da due colpi di fucile semiautomatico calibro 12 e poi, ancora alla testa, da due colpi di pistola calibro 38. Era sera e Rostagno stava rientrando proprio nella comunità che, con amore e fatica, aveva trasformato in una delle più grandi esperienze di recupero in Italia.

 

Rostagno era scomodo. Col suo modo intelligente, schietto, irriverente di fare televisione, era riuscito a scardinare il potere mafioso, quello imperante nel maledetto territorio trapanese, che faceva capo al rappresentante della provincia Francesco Messina Denaro e ai i capi-mandamento di Trapani e Mazara del Vallo, rispettivamente Vincenzo Virga e Francesco Messina (“Mastro Ciccio”).

Oggi sappiamo che è stata la mafia ad aver voluto la morte di Mauro. Ma non è stato semplice. Le indagini avevano in un primo tempo ipotizzato piste alternative poi rivelatesi del tutto infondate: pista interna alla comunità di recupero tossicodipendenti Saman e incentrata sulla figura del cofondatore Francesco Cardella; pista politica connessa agli ambienti di “Lotta continua” in cui Rostagno aveva militato; pista internazionale, legata a un traffico di armi e connessa alla successiva vicenda dell’omicidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. I giudici di primo grado, però, avevano ritenuto la matrice mafiosa la pista più credibile, accertando il coinvolgimento di Virga, in qualità di capo-mandamento, e il suo interesse a stoppare Rostagno, la cui attività giornalistica stava conducendo a disvelare il suo ruolo di capo del mandamento di Trapani, fino ad allora sconosciuta agli inquirenti.

La sentenza di cassazione, però, pone un altro tassello fondamentale in questa storia. Parliamo del ruolo di Francesco Messina Denaro, padre dell’attuale superlatitante e capo indiscusso di Cosa Nostra: Matteo.

Il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori rivela che Francesco Messina Denaro, capo mafioso della provincia, aveva comunicato a Francesco Messina – “mastro Ciccio” – di avere dato incarico ai “trapanesi”, e in particolare a Vincenzo Virga, di fare fuori Mauro Rostagno.

E’ mafia, dunque. Anche se non è così scontato. In una Sicilia dove chi combatte la mafia spesso viene ucciso una seconda volta, da mascariamenti e depistaggi, non è così scontato che si arrivi a pronunciare con certezza la parola “mafia”.

Il caso Rostagno, da questo punto di vista, fa scuola. Un mix vergognoso di errori, sconcertanti anomalie, gravi negligenze nelle prime indagini e misteriose sparizioni. Depistaggi che miravano ad accreditare piste fantasiose, come il coinvolgimento di Rostagno al delitto Calabresi, o ancora la pista interna, che in un primo tempo portò addirittura all’arresto della compagna di Mauro: Chicca Roveri.

 

Il caso Rostagno è uno dei più vergognosi esempi di depistaggio in Italia. Un depistaggio che matura in un contesto in cui Trapani è in mano agli apparati di intelligence di Stato, che creano un terreno propizio all’instaurazione di legami tra “alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale”.

Ricorda Rino Giacalone, giornalista che ha seguito con attenzione il processo, che “quando vengono sentiti i funzionari dei servizi in merito ai voli che si facevano verso la Somalia questi hanno risposto semplicemente che in quei viaggi si trasportavano 350kg di materiali di cancelleria. Possibile che in quel periodo di fuoco si possa credere che vi fosse tanto bisogno di carta e di penne?”. O quel tentativo di sporcare l’immagine di Rostagno, messa in atto negli istanti immediatamente successivi all’omicidio. Il giorno dopo la morte di Rostagno, un carabiniere disse ai giornalisti: «Nella borsa gli abbiamo trovato droga e dollari». Non era vero.

 

La sentenza Rostagno, emanata dalla Cassazione, rappresenta un pezzo importante della storia d’Italia. E ci suggerisce di portare avanti con forza la proposta di legge sul reato di depistaggio, che giace inerme al Senato in attesa di essere convertita. Non ci sono più scuse. Mi auspico che il nuovo Governo si occupi una volta per tutte di rendere onore alle vittime della mafia, delle stragi e dei depistaggi di Stato.

 

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Fonte Ignazio Corrao

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