L’Economia ai tempi del Coronavirus: intervista a James Galbraith

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James Galbraith è un economista statunitense attualmente docente alla “Lyndon B. Johnson School of Public Affairs” e al Dipartimento di Politica alla Università del Texas di Austin. È presidente degli “Economists for Peace and Security”, una associazione internazionale di economisti professionisti che si occupano principalmente di tematiche legate alla pace e alla sicurezza. Ha fatto parte dello staff del Congresso degli Stati Uniti d’America, anche in qualità di “executive director” del “Joint Economic Committee”.


DAVIDE CASALEGGIO:  Grazie per questa chiacchierata,  è molto interessante  ascoltare varie opinioni.  Stiamo intervistando alcune persone  che possono avere punti di vista diversi  sulla situazione attuale, specialmente sull’aspetto economico. In queste settimane abbiamo parlato molto di come lo stato dovrebbe intervenire per sostenere l’economia e la popolazione, ma anche per rilanciare l’economia. Quanto denaro ritiene che lo Stato dovrebbe mettere a disposizione in termini di percentuale di PIL per sostenere l’economia e rilanciarla?

JAMES GALBRAITH: La risposta a questa domanda è necessaria, ma non quanto  la stabilizzazione della situazione e non esiste una cifra specifica e non può esistere in queste circostanze.   Il primo obiettivo ovviamente  è controllare l’epidemia e accertarsi che tutti superino questo periodo,  che stiano al sicuro in casa, dove devono stare, che le filiere continuino a funzionare e che i negozi non esauriscano i prodotti essenziali e contemporaneamente che il resto dell’economia resti in quarantena finché la catena dei contagi si spezzerà e si potrà riaprire in sicurezza. Muoversi più in fretta è estremamente rischioso come dicono le autorità sanitarie pubbliche, e ne stiamo parlando proprio ora in questo Paese, mentre le persone spingono il governo a muoversi in anticipo, prima che la pandemia sia sotto controllo, questa è la prima domanda.

Quando si andrà oltre, poi, il problema di ridare vita all’attività economica deve essere gestito in modo conforme alle richieste della sanità pubblica e con le nuove condizioni che saranno presenti. Cioè, serviranno molte più risorse per il supporto delle comunità  e per il sostegno del sistema sanitario e delle persone che hanno e che stanno gestendo problemi di debiti accumulati che non saranno mai più ripagati come conseguenza dell’assenza di reddito per pagare mutui, affitti, utenze e ogni sorta di cose, e per la ristrutturazione dell’economia per far fronte al fatto che alcune attività che erano molto diffuse prima della pandemia non riprenderanno per molto tempo, e non si sa se lo faranno.

Non ci sarà più lo stesso livello di traffico aereo, non ci sarà più lo stesso livello di turismo, non ci saranno più gli stessi livelli di alcun tipo di viaggio a lunga distanza, non ci saranno eventi di massa, eventi sportivi eventi culturali importanti, eventi che riuniscono le folle, tutto ciò non riprenderà finché non avremo sotto controllo sia questa pandemia che la capacità di gestire il rischio di pandemie future ed anche allora, probabilmente, ci saranno delle modifiche importanti,  perciò bisogna pensare all’economia nel complesso in modo molto strategico. La questione delle risorse non è semplice, ma deve essere adattata   a seconda delle esigenze.

D.C.: Si parla molto in queste settimane di come sostenere l’economia e di come far uscire le aziende da questo periodo di quarantena, ma cosa succederà dopo? Avremo dei settori come il turismo che avranno molte difficoltà a restare sul mercato, in quali settori dovrebbero investire gli stati e come per ridare vita all’economia?

J.G.: Come ho detto prima, è chiaro che le risorse nella sanità pubblica siano insufficienti, questa è la prima priorità, ed è chiaro che siamo vulnerabili per il modo in cui abbiamo fatto funzionare le nostre filiere, non siamo in grado di gestire le esigenze delle persone in questa situazione e il risultato di questo è, credo che valga per l’Europa e certamente per gli Stati Uniti, è che i supermercati sono aperti, ma è una situazione estremamente rischiosa sia per i dipendenti che per i clienti, le forniture sono irregolari e le consegne e la capacità di gestire tutto online non sono adeguatamente sviluppate. Molte cose andranno ristrutturate. Ad esempio, in Cina al momento non si può entrare in nessun edificio pubblico e credo che non sarà possibile farlo per molto tempo senza che prima qualcuno ti misuri la febbre.

Milioni di persone dovranno mantenere gli standard della salute pubblica, qualcuno dovrà organizzare e pagare per questo e sarà il settore pubblico. In un modo o nell’altro, se vogliamo superare la situazione a lungo termine, le attività andranno riorientate verso il sostegno della comunità,  del bene pubblico e, ovviamente, vedremo meno attività che alla gente piaceva concedersi e godersi, che rappresentavano un livello di reddito alto, ma che non avranno più una grande attrattiva, anche se potrebbero permettersele.

Molte famiglie non potranno più permettersi ciò che si potevano liberamente permettere tre, sei mesi fa perché la loro posizione finanziaria sarà molto peggiore   finché non gestiremo il problema e anche questo richiederà molto tempo.

D.C.: Ho visto una sua intervista in cui descriveva la differenza tra l’intervento economico degli stati dopo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale che fu molto diverso. Può spiegare questa differenza?

J.G.: Certo, dopo la Prima Guerra Mondiale gli Stati Uniti insistettero per essere rimborsati per il materiale fornito  a Gran Bretagna e Francia e questo costrinse la Gran Bretagna e soprattutto la Francia a chiedere risarcimenti insolvibili alla Germania. Alla fine, più avanti, gli Stati Uniti fecero dei prestiti alla Germania che non li ripagò e che poi vide l’ascesa di Hitler. Fu una catastrofe che accelerò e prolungò la depressione economica. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il debito degli Alleati fu cancellato. Venne trattato come uno sforzo comune in cui tutti avevano messo le loro risorse comuni e nel 1951 anche i debiti della Germania e del Giappone  furono cancellati. Questo unì tutti in ciò che diventò il mondo occidentale come entità unita che potè crescere per i successivi trent’anni.

Si sta avvicinando qualcosa di simile al post Seconda Guerra Mondiale, non la Prima, ma questa volta non si tratta solo dell’unione delle nazioni, ma di tutte le famiglie che non possono pagare l’affitto, il mutuo, bisogna evitare che finiscano in strada e non si può ritenerle responsabili   di qualcosa che è al di fuori del loro controllo. Questa epidemia ha interrotto l’impiego di tutti e tagliato il reddito.

Si potrebbe fornire il denaro per pagare i debiti ma in caso contrario, si devono cancellare perché non possono essere ritenute responsabili e non si può mettere sul lastrico la gente senza avere conseguenze catastrofiche per tutta la comunità. Lo diciamo già, negli Stati Uniti dovrebbe vigere un divieto per pignoramenti e sfratti, ma i proprietari, specialmente per gli affittuari, lo stanno prepotentemente ignorando. Non viene applicato, le persone vengono buttate in strada e ovviamente non è solo una tragedia personale, ma anche un rischio sanitario per tutti gli altri.

D.C.: In Europa, si parla molto della differenza tra il MES e i bond dell’Europa. Cosa ne pensa in generale, dovremmo accettarlo o semplicemente stampare denaro al momento? Beh, può spiegare il suo punto di vista su tutto ciò?

J.G.: L’approccio giusto è ridurre gli obblighi finanziari al minimo, mettiamola così. Il miglior modo sono le sovvenzioni, perché sono uno sforzo comune e si mettono le risorse in ciò che occorre. Tutto ciò va finanziato come uno sforzo bellico, come abbiamo finanziato la Guerra Civile, la Seconda Guerra Mondiale e se emettete dei bond per finanziarlo, dovranno essere a lungo termine, a basso interesse e di proprietà del grande pubblico.

Il MES ovviamente è un meccanismo per imporre condizionalità e austerità come condizione di bailout (Aiuto finanziario effettuato per salvare dal fallimento una società o un Paese n.d.r.) che essenzialmente avvantaggiava le banche nel caso della Grecia e perciò è un’entità dalla reputazione molto dubbia. Ciò che è stato offerto all’Italia non era sufficiente per far fronte alla questione economica e affrontava solo i problemi medici e non sono certo che facesse adeguatamente nemmeno questo. È un problema importante, il principio nel complesso deve essere rivisto e il miglior modo per farlo, come avevamo proposto nel caso della Grecia, è che la Banca Centrale Europea compri i bond di un’entità come la Banca d’Investimento Europea, cioè un finanziamento diretto di uno sforzo comune, che non è nel budget statale degli stati membri e che è adeguato per far fronte all’emergenza. Si deve pensare a questo.

La vecchia regola che tutto ciò peserà solo su un gruppo di contribuenti non vale. È un problema europeo comune e deve essere trattato come tale e se non ci sarà uno sforzo comune europeo allora il senso dell’Europa verrà messo in discussione.  In questo caso, ad esempio negli Stati Uniti si sta manifestando disagio perché il governo federale non si è assunto le sue responsabilità e tutti gli stati sono in competizione, è una situazione terribile.

D.C.: Ho visto che il problema della liquidità non è un problema nuovo e guardare al passato  è un buon modo per esaminare le soluzioni possibili per gestire un problema che abbiamo già avuto prima. Ho visto che in California, nella crisi del 2009 è stata applicata una soluzione interessante, ne parlava in un’altra intervista che ho visto. Può spiegare di cosa si trattasse?

J.G.: È un’entità sub-nazionale, nello stato della California nel 2008-9 e all’inizio della depressione, in molte città come Detroit e St. Louis e altre, si tratta semplicemente di emettere banconote, che sono emesse con l’autorità dello Stato ovviamente denominate nell’unità monetaria nazionale, e sono accettate come tasse, dall’entità locale, possono circolare con uno sconto e vengono ritirate  appena le cose tornano più o meno alla normalità, ma diventano un mezzo di pagamento che è un’alternativa ai licenziamenti e al taglio dei servizi ed è questo che occorre gestire, perché ci sono servizi vitali come la polizia, i vigili del fuoco, l’igiene, la sicurezza pubblica, la sanità pubblica, l’istruzione pubblica, le scuole pubbliche le università pubbliche che senza mantenimento andranno in decadimento e non ci saranno più.

Nella depressione, lo stato del Wisconsin ha tenuto in piedi una delle grandi università pubbliche, non ha mai tagliato il suo budget   durante la depressione e si può fare attraverso meccanismi finanziari creativi che non impediscono di… nessuno di questi luoghi ha lasciato la zona del dollaro, ma ha trovato metodi per finanziarsi e mantenersi operativo per non avere un crollo totale durante la crisi.

Si è visto anche in Argentina nella crisi dopo il 2001-2. Venne emessa una grande quantità parallela di denaro locale con uno sconto sulla moneta ufficiale, ma andarono avanti.

Si è visto nello sciopero della Banca Irlandese qualche anno fa, quando tutti emisero reciprocamente delle cambiali. Il sistema monetario deve essere flessibile nelle emergenze e non è possibile pensare che un’entità decida la quantità necessaria di un dato strumento di credito. Il necessario va prodotto, le cose vanno conservate.

D.C.: Crede che questo tipo di soluzione si possa applicare all’Europa o…

J.G.: Certo. Credo che in effetti sia previsto, sotto certi aspetti, purché non sia valuta ad uso generico. Lo abbiamo preso in considerazione per la Grecia nel 2015, ma anche se fosse necessaria la valuta ad uso generico, se non si ricevesse il necessario, si deve produrre, fregandosene di chi dice che non si può, è una situazione in cui la responsabilità primaria del governo nazionale è verso la popolazione. È il punto di vista dei Paesi europei accreditati e non c’è motivo per cui i Paesi indebitati non debbano vederla allo stesso modo. Se si vuole raggiungere un accordo, bene, altrimenti, si dovrà fare ciò che è necessario.

D.C.: In prospettiva più ampia, speriamo di superare questo periodo del COVID-19 prima o poi e ciò che rimarrà saranno grandi cambiamenti nella società, cosa dovremmo preparare per la nuova era che verrà? La settimana scorsa ho parlato con Rifkin  che l’ha definita era della resilienza. Ha pensato a cosa succederà e cosa resterà per sempre dopo questo periodo?

J.G.: Ho scritto un articolo su questo argomento insieme alla mia collega Albena Azmanova a Bruxelles, su ciò che emerge da Progressive International.

Credo che ci sia una scelta fondamentale, ci sono gravi pericoli. Se le cose non verranno gestite adeguatamente, le persone che hanno le risorse, come i fondi speculativi, fondi avvoltoi i creditori in genere, chi ha guadagnato riducendo i tempi della commercializzazione a gennaio, eccetera, andranno a caccia per comprare tutto a basso costo  e diventeranno nuovi padroni di casa, nuovi proprietari di aziende che svendono a prezzi scontati e aziende che hanno fatto bancarotta e si vedrà una società fondamentalmente distopica con eserciti di senzatetto e seguiranno fame, problemi endemici di salute, un collasso dell’aspettativa di vita e per evitare tutto questo, e la definizione società della resilienza non è male, si dovrà ristrutturare e riorganizzare per ridare priorità alla comunità sostenibile, ciò significa fornire occupazione e sicurezza e gestire le precarietà che hanno reso la vita difficile nell’ultimo decennio.

Questa non è solo una pandemia, la pandemia fa emergere tutto questo in forma acuta e per questo si usano delle risorse, si deve ripristinare la distribuzione di reddito e ricchezza ed è come una situazione post bellica. Succede, come è successo in passato   e deve succedere adesso. È un’occasione per ricominciare su basi diverse usando le risorse disponibili per le necessità della comunità e questo significa che molte cose in pratica non torneranno, e forse non dovrebbero tornare, agli stessi livelli. Dobbiamo anche gestire il problema ambientale, i cambiamenti climatici, la trasformazione energetica.

Negli Stati Uniti verrà ridotta enormemente la produzione di combustibili fossili. Ieri un barile di petrolio si poteva acquistare per 40-37 dollari e conservarlo nella lavatrice, la situazione era questa. Questi ambiti   verranno chiusi, subito, molto presto. Vedremo la necessità di investire in energia rinnovabile come mai prima. Dovremo avere una società organizzata su consumi di energia più bassi e tenore di vita più alto, maggiormente basato sulla comunità, meno spostamenti verso il lavoro, più lavoro da casa. Non sarà una cosa negativa, approfitteremo delle tecnologie come quelle che stiamo usando ora. Quando le persone si accorgeranno quanto si possa fare con questo, lo accetteranno e lo preferiranno in modi importanti.

Possiamo costruirci una vita, ma non sarà uguale a quella prima della pandemia.

D.C.: Grazie mille per la chiacchierata.

J.G.: Grazie mille a lei.

D.C.: Grazie di essersi collegato dagli Stati Uniti, da Austin mi pare, giusto?

J.G.: Sì, Austin, Texas. Buona fortuna.

D.C.: Grazie mille.

J.G.: Arrivederci. Buona fortuna a tutti i miei amici italiani.

 


Rileggi qui gli altri articoli della rubrica “L’economia ai tempi del Coronavirus”

• Intervista a Jean Paul Fitoussi

• Intervista a Wolfgang Münchau

• Una settimana con Rifkin – 1. L’era della resilienza

• Una settimana con Rifkin – 2. Le tre infrastrutture di ogni rivoluzione industriale

• Una settimana con Rifkin – 3. Dalle autostrade alle reti intelligenti

• Una settimana con Rifkin – 4. Modelli di business: dalle transazioni ai flussi

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L’articolo L’Economia ai tempi del Coronavirus: intervista a James Galbraith proviene da Il Blog delle Stelle.

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