Mafia nigeriana, a Torino 20 condanne e un’assoluzione: pene per 140 anni di carcere

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La mafia nigeriana esiste anche in Italia. Ed è un’associazione mafiosa in piena regola. Come Cosa nostra e la ‘ndrangheta. A stabilirlo, ancora una volta, è la sentenza di un tribunale, che ha inflitto venti condanne e una assoluzione. Si è chiuso così a Torino il processo per l’attività di due gang di nigeriani, i Maphite e gli Eyie, che secondo l’inchiesta della procura si occupavano di droga, prostituzione e immigrazione clandestina. La pena più alta è a 10 anni di carcere ed è stata inflitta a quello che è indicato come il presunto coordinatore dei Maphite.

Il totale delle condanne è di circa 140 anni di reclusione. La sentenza ha riconosciuto il carattere transnazionale delle due associazioni mafiose, collegate alle loro case madri nel Paese di origine. E’ stata però respinta la tesi che si trattasse di gruppi armati. “A giudicare dal dispositivo per molti è caduta l’accusa di essere delle figure di vertice. Leggeremo comunque le motivazioni e valuteremo il ricorso in appello”, dicono gli avvocati Manuel e Wilmer Perga, che hanno difeso numerosi imputati fra cui l’unico assolto.

Un processo alla mafia nigeriana è attualmente in corso a Palermo, dove nel novembre scorso sono stati rinviate a giudizio cinque persone.  Il procedimento nasce da un’indagine della procura di Palermo, svelata in esclusiva da un’inchiesta del fattoquotidiano.it nell’ottobre del 2015, a carico di una organizzazione mafiosa transnazionale, con base in Nigeria, denominata Black Axe, l’ascia nera. Gli investigatori della squadra mobile scoprirono un clan che aveva la gestione e il controllo di una serie di attività economiche illecite: dalla riscossione di crediti allo sfruttamento della prostituzione e al traffico di stupefacenti. La banda, che aveva il quartier generale nel quartiere storico di Ballarò e cellule anche in altra città italiane, era organizzata secondo una struttura verticistica basata su rigide regole fatte di “battesimi“, riti di affiliazione dei membri e precisi ruoli all’interno del sodalizio simili a quelli di Cosa nostra. Tra gli arrestati c’erano anche il capo del clan Festus Pedro Erhonmosele e il suo vice Osahon Kennet Aghaku, nigeriano, di 22 anni che si occupava personalmente di punire chi disubbidiva.

A svelare i meccanismi dell’associazione criminale, dopo il blitz, fu uno degli arrestati che ha scelto di collaborare con gli inquirenti. Nel corso dell’udienza in cui diversi imputati hanno anche chiesto l’interrogatorio, ci sono stati momenti di tensione tra i legali e il giudice. I legali hanno lamentato l’irritualità dell’udienza in cui, hanno sostenuto, i tempi avrebbero limitato i diritti di difesa.

Nata negli anni ’70 all’università di Benin City, in Nigeria, come una confraternita di studenti, Black Axe all’inizio è una gang a metà tra un’associazione religiosa (li chiamano culti) e una banda criminale, che stabilisce riti d’iniziazione e impone ai suoi affiliati di portare un copricapo, un basco con un teschio e due ossa incrociate, come il simbolo dei corsari. Ilfattoquotidiano.it ha ricostruito come da qualche anno i tentacoli di questa nuova piovra criminale siano arrivati anche in Italia, dove i boss nigeriani hanno iniziato a dettare legge nei sobborghi di città come Brescia e Torino: droga, spaccio, gestione delle prostitute e un regime di terrore molto simile a quello che è il marchio di fabbrica delle mafie di casa nostra. “Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenente a sette segrete, proibite dal governo a causa di violenti atti di teppismo: purtroppo gli ex membri di queste sette che sono riusciti ad entrare in Italia hanno fondato nuovamente l’organizzazione qui, principalmente con scopi criminali”, si legge in un’informativa dell’ambasciata nigeriana a Roma del 2011. L’inchiesta del fattoquotidiano.it ha anche svelato come tra i nigeriani e i boss i Cosa nostra a Palermo ci fosse una sorta di accordo per spartirsi il territorio al centro della città.

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Fonte Il Fatto Quotidiano

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