Ripensare la progettazione urbana: la città provvisoria

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di Rahul Mehrotra – Oggi, ci sono circa 50 città con più di 5 milioni di persone. Voglio condividere con voi la storia di una di queste città, una città di 7 milioni di persone, una città che è una megalopoli temporanea, una megalopoli effimera. E’ una città che si crea per un festival religioso indù chiamato Kumbh Mela, che si svolge ogni 12 anni, in forma ridotta ogni quattro anni, e ha luogo alla confluenza dei fiumi Gange e Yamuna in India. Per questo festival, si riuniscono circa 100 milioni di persone.

Così tante persone si riuniscono qui perché gli indù credono che durante il festival, se ci si bagna alla confluenza di questi due grandi fiumi ci si libera dalla rinascita. È un’idea molto convincente, ci si libera dalla vita come la conosciamo. Questo è ciò che attrae milioni di persone. Si costruisce così un’intera megalopoli per ospitarli. 7 milioni di persone vivono lì per 55 giorni, e altri 100 milioni sono di passaggio.

Ciò che affascina di questa città è che ha proprio le caratteristiche di una vera megalopoli: si predispone una griglia per pianificare la città. Il sistema urbano è una griglia e ogni strada di questa città attraversa il fiume con un ponte di barche. Incredibilmente flessibile perché se c’è un nubifragio fuori stagione o il fiume cambia corso, il sistema urbano resiste intatto, la città si adegua al terreno che può essere instabile. Inoltre si replica ogni tipo di infrastruttura, sia fisica che sociale. Fornitura d’acqua, fognature, elettricità, ci sono 1.400 telecamere per la sicurezza usate da un’intera stazione di comando allestita appositamente. Ma ci sono anche infrastrutture sociali, come cliniche, ospedali, tutti i tipi di servizi per la comunità. 10.500 spazzini sono assunti dalla città. Ha un sistema di governo, un Mela Adhikari, cioè il commissario del festival, che si assicura che la terra sia distribuita, ci sono regole per questo, si assicura che il sistema, la mobilità, tutto funzioni in modo efficiente.

Pensate: è la città indiana più pulita ed efficiente in cui ho vissuto.

Questa non è una città informale o una città pop-up. Questa è una città formale, questa è un’impresa di stato, è lo stato che la allestisce. Nel mondo odierno del neoliberismo e del capitalismo, dove lo stato si è assunto la completa responsabilità di fare e progettare le città, questo è un caso incredibile. È una città calcolata, intenzionale, una città formale.

Ed è una città che poggia al suolo con delicatezza. Poggia sulle rive dei fiumi. E lascia un’impronta molto lieve. Non ci sono fondamenta; si usa il tessuto per costruire l’intera città. Un’altra cosa incredibile è che si usano cinque tipi di materiale per costruire questo insediamento per 7 milioni di persone: bambù alto 2 metri, spago o corda, chiodi o viti e materiale per rivestire come lamiera ondulata, tessuto o plastica. Questi materiali si amalgamano e si integrano. È come un kit di montaggio. Ed è usato sia per una piccola tenda, che può ospitare cinque o sei persone, o una famiglia, che per i templi che possono accogliere 500, a volte 1.000 persone. Questo kit di montaggio, quest’idea di città, permette che si possa smontare. Così alla fine del festival, in una settimana, l’intera città viene smantellata. Il terreno viene restituito al fiume, perché con il monsone l’acqua si alza di nuovo. È quest’idea di un kit di montaggio che permette lo smantellamento e l’assorbimento di tutto il materiale. Così i pali della luce vanno ai piccoli paesi dell’hinterland, i ponti galleggianti vengono usati nei paesi, si riassorbe tutto il materiale.

E’ un esempio stupefacente, e vale la pena di rifletterci su. Qui gli esseri umani spendono un’enorme quantità di energia e immaginazione sapendo che la città sarà cancellata, sarà smontata, sparirà, è una megalopoli effimera. Ci insegna una lezione profonda. Una lezione su come toccare il suolo con leggerezza, sulla reversibilità, sullo smantellamento.

Sapete, come esseri umani, siamo ossessionati dalla stabilità. Resistiamo al cambiamento. È un impulso che abbiamo tutti. Resistiamo al cambiamento nonostante il cambiamento sia forse la sola costante delle nostre vite. Tutto ha una data di scadenza, incluso la navicella Terra, il nostro pianeta.

Cosa possiamo imparare da questo tipo di insediamenti? Come ‘Burning Man’, ovviamente più piccolo, ma reversibile. O le migliaia di mercati per il commercio che compaiono in tutto il mondo, in Asia, America Latina, Africa, in Messico, dove i parcheggi si animano nei fine settimana, con circa 50.000 venditori, ma su base transitoria. Il mercato dei contadini nelle Americhe è un fenomeno incredibile, che crea nuove alchimie, allarga i margini dello spazio che non viene usato o non è usato in modo ottimale, come i parcheggi, ad esempio.

Nella mia città, Mumbai, dove lavoro come architetto e urbanista, lo vedo in una prospettiva quotidiana. Chiamo questo fenomeno la Città Cinetica. Freme come un organismo vivo; non è statico. Cambia ogni giorno, con cicli alle volte prevedibili. Circa sei milioni di persone vivono in questi tipi di insediamenti temporanei. Come, sfortunatamente, i campi dei rifugiati, i quartieri poveri di Mumbai, le favelas dell’America Latina. Qui il temporaneo sta diventando il nuovo permanente. Qui l’urbanistica non riguarda una grande visione, riguarda un grande adattamento.

Nelle strade di Mumbai, durante il festival di Ganesh, c’è una trasformazione: per 10 giorni si crea un palazzo della comunità. Si proiettano film di Bollywood, a migliaia si riuniscono per cene e celebrazioni. È fatto di cartapesta e gesso. Progettato per essere smontato, e dopo 10 giorni, durante la notte, sparisce e la strada torna all’anonimato. Qui l’urbanistica è una condizione elastica.

Quindi, se si riflette su queste domande, penso che ne possano venire in mente molte. Ma una molto importante è questa: nelle nostre città, nella nostra idea di urbanizzazione, stiamo veramente dando soluzioni fisse a problemi temporanei? Stiamo bloccando risorse per dei modelli che non sappiamo nemmeno se saranno rilevanti tra una decina d’anni? Credo che questa sia una domanda interessante che emerge da questa ricerca.

Guardate i centri commerciali abbandonati in Nord America, la periferia nel Nord America. Esperti di vendita al dettaglio prevedono che nei prossimi dieci anni, dei 2.000 centri esistenti, il 50% verrà abbandonato. Un’enorme quantità di materiale, risorse bloccate, per qualcosa che tra breve sarà irrilevante.  O gli stadi olimpici. In tutto il mondo le città li costruiscono con grandi contestazioni ed enormi risorse, ma una volta finiti i giochi, spesso non possono essere assorbiti dalla città. Non potrebbero essere delle strutture nomadi, sgonfiabili. Abbiamo la tecnologia per farlo; che si possono regalare a città più piccole, o che possono essere conservate per le olimpiadi successive? Un uso massiccio e inefficiente delle risorse!

Possiamo creare dei sistemi urbani più delicati? O abbiamo intenzione di continuare a sfidare la natura con pesanti infrastrutture, cosa che stiamo già facendo senza successo?

Non sto sostenendo che le città devono essere completamente provvisorie. Sto solo lanciando un appello perché dobbiamo cambiare la nostra idea di città, dove dobbiamo riservare più spazio per attività di portata temporanea. Dove dobbiamo usare le nostre risorse in modo efficiente, per allungare la data di scadenza del nostro pianeta. C’è bisogno di cambiare la cultura della progettazione urbana, pensare al temporaneo, al reversibile, allo smontabile. Questo può essere eccezionale se si considera l’effetto che potrebbe avere sulle nostre vite.

Le città, la gente, l’architettura vanno e vengono, ma il pianeta rimane. Toccatelo con leggerezza, lasciate una traccia piccolissima. Penso sia una lezione importante per noi cittadini e architetti. Penso sia stata questa esperienza che mi ha fatto credere che la provvisorietà sia più grande della stabilità e più grande di tutti noi.

 

 

Translated by Silvia Fornasiero

Reviewed by Sofia Ramundo

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Fonte Il Blog di Beppe Grillo

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