Perdere una goccia per vincere un mare: Atto III

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Vissuto, Riflessioni e Strumenti di Pace da una Colombia in guerra.

Discorso sull’Educazione Inclusiva in tre Atti

Atto III: Inclusione e Protezione delle Diversità: Epicentro Di Pace

All’interno della metodologia MEFES (Metodologia Flexibile Extra-edad Secundaria), nei miei tre anni vissuti in Colombia, il mio lavoro si è concentrato nella formulazione e strutturazione di un Curriculum Differenziale che si occupasse di lavorare la parte emozionale e relazionale degli studenti.

Questo Currículo o “Allenamento Emozionale” rappresenta la differenza più sostanziale, e quella che più personalmente mi ha visto impegnato, e che è strutturata come una parte indipendente della metodología pedagógica. Può essere proposta, e di fatto la propongo, separatamente dalla metodología generale; quella si costruisce con gli obbiettivi esposti prima, mentre questa si riferisce a un contesto più preventivo, e non solo come intervento correttivo a situazioni di disagio.

Sono arrivato a definire ed attuare una proposta concreta di un percorso di Formazione, che più propriamente definisco “allenamento”.

Questo allenamento emozionale si propone semplicemente di passare dal “cosa” al “come”. Di spostare l’attenzione dal cosa si insegna al come si insegna, da cosa si apprende a come si apprende, dal cosa faccio al come lo faccio. Dal Saper Fare al Saper Essere. L’oggetto di “studio” è il nostro sentire, e ciò che facciamo con questo.

È una forma di insegnare ai ragazzi a gestire le differenze, non a subirle. Soprattutto a riconoscere ed avere quelle competenze necessarie per farlo. È una forma per rafforzare quella parte dell’essere umano che lo spinge a collaborare, non a competere, a comprendere, non a imporre, ad avere azioni di pace e non reazioni di guerra.

Propone inoltre, un differente ruolo del “maestro”, che da depositante dell’ informazione, si trasforma in propiziatore del conoscimento, seguendo le nuove teorie sulla leadership

Rappresenta una formazione dell’Essere alla Pace. Attraverso situazioni pratiche di interazione e di riflessione collettiva.

Questa formazione parte dal problema che ponevo prima, nell’ Atto II, cioè “quello che la guerra toglie”. E in qualche forma, secondo me, risponde anche un po’ alla domanda iniziale “cosa dovrebbero apprendere i ragazzi oggi”.

Spesso utilizzo anche questa domanda per iniziare i miei interventi. A volte, per entrare ancora di più nell’anima, chiedo ai miei studenti di cosa si ha bisogno per uccidere qualcuno (alcune volte le domande sono molto scomode. A volte riflettere su qualcosa non è indolore). O meglio ancora cosa è necessario NON avere. Il più delle volte tutte le differenti risposte si possono riassumere con la parola UMANITA’. La guerra toglie l’umanità. Per uccidere qualcuno devo, o perdere io il carattere di umano, o lo devo togliere all’altro. Diversamente uno non lo preme il grilletto. Se uno si rispecchia nell’Altro non lo può uccidere. In perfetta sintonia con quello che dice la scala di GLASL sulla escalation dei conflitti nella fase di “perdita dell’immagine”. E con quello che è successo sempre nella storia dei popoli e delle loro guerre. In questo mondo vediamo troppo spesso “uccidere”, non solo persone, senò, più frequentemente, futuri, speranze, possibilità. La morte, come la guerra, si considera soprattutto come metafora.

È molto difficile parlare di guerra qui in Colombia. E anche di conflitto, soprattutto per me che non uso la parola “guerra” con lo stesso significato con cui la usano qui, non la “significo” allo stesso modo, perchè guerra e conflitto non sono la stessa cosa. La guerra giunge quando un conflitto con si riesce a risolvere con strumenti di pace, quando nel conflitto si riconosce l’Altro come avversario, e non come co-protagonista o meglio detto corresponsabile.

Cerco quindi, prima di tutto di destigmatizzare il conflitto e ridurlo a quello che è: un punto, nel tempo e nello spazio, dove si INCONTRANO due differenze. Quello che facciamo poi con queste due differenze è un’altra cosa. La violenza, la guerra, e la competizione, sono una delle scelte possibili. Queste ci portano semplicemente a stabilire valori di qualità rispetto alle differenze, a misurarle, compararle e decidere chi è primo e chi è secondo. E a volte questo sottintende chi è bene e chi è male, chi è giusto e chi è sbagliato, chi è sano e chi è pazzo, fino all’estremo del chi esiste e chi non dovrebbe più farlo.

Il sistema capitalistico in cui viviamo è tendenzialmente competitivo e definisce l’individuo essenzialmente per i risultati che raggiunge, in un ottica individualista ed escludente di vincitori e perdenti.

In termini matematici, chi tratta le differenze in questo modo, sta utilizzando le operazioni di sottrazione e divisione. In ogni caso il risultato conterrà “meno” del punto di partenza.

Poi c’è chi, come me, preferisce le somme e le moltiplicazioni, per non parlare delle potenze. Ed arrivare a una “verità” che comprenda e unisca, accresca e valorizzi le differenze.

La Risoluzione Pacifica dei Conflitti, intesa come teoria e soprattutto come pratica, mi ha aperto il mondo in una forma destabilizzante, perchè per riuscire a non sottrarre le differenze c’è bisogno di abbandonare il pensiero dicotomico, e raggiungere, più che la neutralità o la equidistanza, la multipazialità, che ti avvicina a ragioni a volte contrapposte. Ma anche questo tema meriterebbe un discorso a parte.

Ritornando alla domanda “che cosa toglie la guerra”, secondo me una buona risposta ce la dà l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la sua classificazione delle competenze sociali o abilità per la vita o educazione cittadina (ogni paese le chiama e le usa differentemente però più o meno sono le stesse).

Nella mia proposta le “filtro” e le raggruppo attraverso la mia personale metodología che definisco “Il Cammino alla Pace” e che comprende 3 dimensioni fondamentali e 3 “competenze” (sarò molto breve lasciando possibilità di approfondire…).

La prima dimensione è l’IO e la prima competenza è il “saper dare”. La prima forma di pace è la pace con se stessi. È conoscere, accettare amare, rispettare, e valorare ciò che si è. La sfida è saper dare il meglio di sè stessi.

La seconda dimensione è il “tempo”, e la seconda competenza è “saper rinunciare”. Essere in pace con il tempo è essere in sintonia con la propria missione di vita. È avere il coraggio di scegliere un cammino. E chi sceglie, sempre, rinuncia a qualcosa. Saperlo fare è poter stare in pace con il tempo, accettare il passato e proiettarsi nel futuro. Non avere rimpianti.

La terza dimensione è l’Altro e la terza competenza è “saper chiedere”. L’incontro con l’altro differente deve essere un incontro di pace e di condivisione. In situazioni di conflitto si deve saper chiedere il rispetto dei propi diritti e delle propie necessità con forza però al tempo stesso con una forma che non implichi azioni violente, ma la comunicazione e il dialogo. Anche nelle disconformità si devono avanzare pretese scegliendo accuratamente parole di pace e non di offesa.

I “temi” di allenamento proposti sono quindi 8:

  • Autoconoscimento, Empatia, Gestione delle Emozioni e dello Stress.
  • Comunicazione Assertiva ed Ascolto Attivo, Processo decisionale, Pensiero Critico e Creativo.
  • Relazioni Interpersonali Positive, Strategie di risoluzione pacifica di conflitti.

Tutti con situazioni partecipative strutturate, materiale di lavoro, materiale didattico.

Da queste abilità o competenze parte la mia proposta metodologia e le mie attività interattive, che sono il frutto di anni di studio su modelli e proposte di differenti Paesi, particolarizzate con la mia visione del mondo e delle cose e l’esperienza fatta in Mediazione e Risoluzione di conflitti e nelle scuole con più di mille studenti.

Allenare le emozioni è solo il primo passo per una “struttura pacificatrice” della scuola, o “Epicentro di Pace” come ho chiamato il mio progetto: un luogo dove le differenze e i suoi conflittI non si subiscano, ma si gestiscano e si direzionino, si prevengano e si curino (non nel senso di curare come una malattia, ma nel senso di averne cura come si fa con una pianta).

Purtroppo, ancora la brusca interruzione del lavoro nelle scuole mi ha permesso di “arrivare” fino a questo punto. Di riuscire a “lavorare” le, e con le, emozioni dei ragazzi. E le loro risposte sono state sbalorditive.

Da un lato ho incontrato un estrema povertà sul piano emozionale basico: il riconoscimento e il controllo delle proprie emozioni e di quelle degli altri. Dall’altro una tremenda povertà di proprietà comunicative, dal punto di vista formale e di quello strategico.

Mi sembra un terribile mix: non comprendo le tue emozioni, non controllo le mie. Non sono in grado di argomentare le differenze. Lottano per difenderle invece che dialogare per comprenderle. Danno per scontato che differenza è uguale a pericolo (e mi permetto umilmente di generalizzare questa attitudine a molti altri contesti, non solo quello colombiano e non solo quello educativo ma più che altro ad una tendenza generale soprattutto della nostra cultura europea).

È normale che preferiscano i pugni e la violenza. Sono molto più “preparati” in questo senso. E tra l’altro continuamente il mondo presenta ai loro occhi esempi giudicati positivi di uso della forza in maniera negativa. Perchè dovrebbero scegliere la pace quando sono abituati alla guerra?

Allo stesso tempo però ho incontrato una sensibilità profondissima. Una capacità di sentire eccezionale. Una forza maestosa che permette loro di resistere e rialzarsi, seppur claudicando, di fronte a terribili tragedie. Ho sfiorato vite che mi hanno sconvolto solo a toccarle. Figuratevi loro che le hanno vissute, come stanno dentro. Ma come dice il caro amico Faber “dai diamanti non nasce niente dal letame nascno i fiori”

Il secondo passo, che mi sarebbe piaciuto fare, e che poi ho continuato a strutturare, è l’inclusione degli “adulti” e la formazione di un numero sufficente di giovani leader che possano direzionare, abbordare e dirimere i conflitti.

Il primo passo permette di formare studenti che tendenzialmente cercheranno di ricorrere alla comunicazione e alla tolleranza nella gestione delle differenze, però non elimina i rischi di situazioni di difficile gestione. E non fornisce una struttura che contenga e organizzi i conflitti.

Per alcuni adulti (docenti e genitori), oltre che per i giovani leader, si propone un corso di formazione in Risoluzione di conflitti, che proporzioni strumenti e conoscenze su tre aree particolari: la teoría del Conflitto, la Psicologia del Conflitto, le Tecniche di Risoluzione e prevenzione.

Il processo culmina nella formazione in Mediazione di queste persone, per dotare la scuola di figure di riferimento che possano fungere da Mediatori in conflitti Scolastici. La Mediazione è “entre pares” quindi ragazzi mediano conflitti di ragazzi. Responsabilità nella gestione, nel processo di risoluzione e nella eventuale riparazione. TADAN!!! AUTOGESTIONE!!!

E’ necesario, perciò, includere tutti i livelli scolastici, perchè questo è un processo di “democratizzazione” della scuola, e passa solo attraverso un riequilibro dei poteri e delle responsabilità. E chi ne ha di più ha bisogno di prepararsi a lasciarne un po’ in altre mani. E chi ne ha meno ha bisogno di prepararsi a saperne gestire un po’ di più.

Una volta formati i Mediatori si “costruisce” e si abilita il servizio di Mediazione Giovanile, con i suoi formati di richiesta, processo e seguimento, le sue regole, il suo iter, i casi in cui intervengono anche gli adulti, i casi in cui non si può mediare, i limiti e le responsabilità di ogni attore e la forma e la struttura con cui e dentro cui deve svolgere la sua funzione.

In questo modo si costituisce un terremoto di pace, che scuote e mobilizza tutti gli attori del contesto, coordinandoli in un unica direzione, coerente con un unico obbiettivo di ascolto e dialogo, di rigetto della violenza; dove la convivenza è PRO-ATTIVA, come un sistema che si autosostiene e si autopromuove e ha al suo interno le forme per essere modificato.

Si consegna quindi, dopo più di 50 ore complessive di formazione e accompagnamento, alla scuola, un servizio di Ascolto e Mediazione, indipendente, funzionante e duraturo, stabile nel tempo, che rappresenti non solo un punto di riferimento per i conflitti, ma anche e soprattutto un polo promotore di una cultura di Pace.

Non pretendo con queste proposte di aver scoperto nulla di nuovo. Ripeto infatti che ci sono arrivato studiando differenti sistemi di differenti paesi. Raccogliendo quello che più mi sembrava utile e congruente. E mettendo in pratica l’appreso con la mia sensibilità. Il sistema argentino per esempio, sul tema della mediazione (non solo quella scolare ma anche la civile e giudiziale) è molto avanzato e ben organizzato.

Anche la legge sulla convivenza colombiana ha delle importanti aperture in questo senso. Sicuramente anche in Italia ci sono delle interessanti proposte. Però…

La prima considerazione che faccio è la differenza, spesso abissale, tra quello che le leggi dicono e l’applicazione delle stesse.

La seconda cosa da considerare è che questi temi, la maggior parte delle volte, si affrontano come accessori, (quando per me, invece, sono centrali anche rispetto alla parte prettamente accademica) o fanno parte di differenti “materie”, o peggio ancora vengono considerate come implicite al compito del docente. Alcune fanno parte della vecchia educazione civica, per intenderci. Però fino ad ora non ho incontrato qualcosa di così sistemico e integrale, che comprenda differenti attori e differenti posizioni. Che includa la parte emozionale e quella comportamentale, quella formativa a quella procedurale, che pensi alla Pace come il risultato di una serie di competenze interne e conseguenti azioni manifeste. Che non dia per scontata la Pace per buonismo, fede o per buon senso, ma che cerchi di capire che cosa si ha bisogno per costruirla. E che si “allenino” quelle competenze necessarie e farlo.

In questo momento continuo a proporre i miei progetti alle scuole del paese, con la collaborazione di una Fondazione privata che lavora nel campo sociale e della salute psicologica.

Però queste iniziative, indubbiamente, hanno più impatto e più risonanza quando è il Pubblico a proporle, a promuoverle.

Nella mia vita mi sono preoccupato di non avere rimpianti. Perchè, da adolescente, è quello che più mi ha fatto paura e quello per cui più ho visto soffrire le persone, a volte fino a crogiolarsi di essere vittime di decisioni sbagliate.

E l’unica maniera per non aver rimpianti che ho trovato è quella di prendere decisioni soltanto dopo accurate riflessioni, prendendosi più del tempo necessario, e mentre si è li, titubanti e indecisi, continuare a dare quello che si ha. Senza risparmiarsi nulla.

È un po’ quello che ho provato a fare fino alla fine. Sono rimasto con i miei ragazzi fino quasi al ridicolo. Rimane l’amaro per non aver potuto terminare il lavoro, e la speranza di aver tempo e spazio per continuarlo.

Soprattutto l’amarissimo quando rivedo per strada qualcuno di loro, di nuovo, con le pupille dilatate. Facendo la guardia ad un isolato. Mi guardano con un filo di imbarazzo e mi dicono “la buena Profe”. Io sento quello stupido e triste orgoglio di aver rappresentato, per qualcuno, un temporaneo fattore di contenzione, un filtro, un traduttore di reazioni incomprensibili.

Amo la Colombia e ancora mi da gli stimoli per poter continuare a costruire ponti emozionali che uniscano le persone.

Però se qualcuno, nella mia terra, fosse interessato, in cambio di un briciola di sicurezza, a qualche idea creativa, a molta passione e pazienza, nemmeno farei le valigie. Tornerei a casa così come mi trovo adesso, in bermuda ed infradito.

 

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Fonte Il Blog di Beppe Grillo

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