Turchia

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Nonostante la Turchia non sia stata interessata da eventi di gravità paragonabile a quelli della Siria o dell’Iraq, la sua collocazione strategica, autentica cerniera tra Europa e Medio Oriente, ne fa un naturale centro di interesse anche ai fini di una ricognizione delle principali tematiche di politica estera da parte del Parlamento italiano. Oltre alle sue peculiarità geopolitiche, vi sono inoltre importanti profili dell’evoluzione politico-istituzionale del grande Stato anatolico suscettibili di attrarre l’attenzione internazionale: va infatti ricordato come nel corso degli ultimi cinque anni il partito dell’AKP, ormai da lungo tempo al governo, inizialmente caratterizzato da un approccio di islamismo moderato e tale da costituire un modello anche per molti altri paesi di fede musulmana, ha accentuato la presa su molteplici leve del potere, sotto la forte personalità del presidente Erdogan, che proprio in questo ultimo periodo è riuscito a coronare il proprio progetto di un rafforzamento dei poteri presidenziali – instaurando un regime presidenziale. Non mancano pertanto preoccupazioni sia in ordine all’effettiva democraticità del nuovo sistema politico-istituzionale turco, sia in relazione al rispetto dei diritti umani nel paese : valga ad esempio la grande offensiva ormai in atto contro i mass media non allineate alle direttive governative.
Le dimissioni del premier Davutoglu a metà del 2016 hanno costituito un’altra spia del progressivo radicalizzarsi dell’islamismo dell’AKP sotto Erdogan – Davutoglu, dapprima come ministro degli esteri e poi come premier aveva incarnato infatti il volto più dialogante e moderato della Turchia.
Tornando in al piano internazionale, Ankara è progressivamente passata nell’ultimo quinquennio da un atteggiamento – quello, appunto, attribuito a Davutoglu – di necessarie buone relazioni con tutti i vicini, a un coinvolgimento nelle tensioni regionali – soprattutto il conflitto in corso in Siria -, che l’hanno indotta a scelte piuttosto nette, e addirittura in taluni casi suscettibili di compromettere i rapporti turchi con l’Occidente, sia per quanto concerne l’Unione europea sia per ciò che riguarda l’Alleanza atlantica, alla quale Ankara ha aderito nel 1952.
La Turchia infatti, anche per il crescente scetticismo sulle prospettive di integrazione europea del paese, ha iniziato una propria politica regionale, definita da più osservatori d’impronta neo-ottomana, anche in ragione delle suggestioni del passato imperiale relativamente recente del paese. Tale politica, che, come già detto, in un primo tempo mirava a rapporti di distensione con tutti i paesi vicini – tanto che in alcune fasi persino  con l’Armenia erano sembrati aprirsi spiragli di vera riconciliazione – doveva però a partire dal 2011 confrontarsi con le conseguenze dei vasti rivolgimenti etichettati come Primavere arabe, e soprattutto con il gravissimo conflitto tuttora non spento nella confinante Siria.
Ankara tentava di accreditarsi come modello per i paesi del Nordafrica che si erano liberati di regimi da lungo tempo radicati, ma nel far questo non poteva indirettamente non scontrarsi con un altro importante paese sunnita, l’Arabia Saudita, che soprattutto per la potenza economica e per il prestigio derivante dalla custodia dei luoghi santi dell’Islam tende a sua volta a influenzare l’insieme del mondo arabo, al quale del resto, a differenza della Turchia, appartiene anche dal punto di vista etnico.
Rispetto alla crisi siriana in un primo momento gli obiettivi della Turchia e dei sauditi non sembravano differire granché, essendo entrambi interessati ad appoggiare la rivolta sunnita contro il regime alawita di Assad.
Erano gli avvenimenti in Egitto a portare allo scoperto le profonde differenze tra l’approccio turco e quello saudita: al momento della rimozione di Mohammed Morsi (luglio 2013) dalla Presidenza dell’Egitto, infatti, mentre l’Arabia Saudita appoggiava organicamente il nuovo regime di al-Sisi e la mano pesante da questo dispiegata contro la Fratellanza musulmana egiziana, la Turchia di Erdogan criticava aspramente il nuovo regime del Cairo. Se infatti una costante può rinvenirsi nell’azione della Turchia nei confronti del mondo arabo, questa è proprio l’appoggio movimenti ispirati alla Fratellanza musulmana – islamisti, ma non necessariamente d’impronta jihadista -, che incarnano quell'”Islam sociale” profondamente inviso invece alle élite saudite, proprio per le implicazioni di rivolgimento sociale che la loro affermazione potrebbe comportare.
Da questo momento in poi la Turchia aumentava il proprio coinvolgimento nella crisi siriana, ove tra l’altro non risultavano grandi sforzi di Ankara nel contrastare il radicamento dello “Stato islamico” nei territori siro-iracheni; mentre l’Arabia Saudita sembrava aver compreso i pericoli di un appoggio troppo sostenuto ai movimenti jihadisti, e si concentrava piuttosto nella lotta geostrategica con l’Iran per il dominio del Golfo Persico, intervenendo nella difficile situazione yemenita. Per quanto concerne il rapporto della Turchia con la crisi siriana, inoltre, non va dimenticato come proprio le regioni sudorientali turche – quelle che confinano con la Siria – siano abitate da ampie fasce di popolazione curda: si comprende in tal modo come la preoccupazione turca sia divenuta sempre più quella di evitare il  costituirsi di un arco di egemonia curda nei territori nord-siriani, che potrebbe esercitare una forte attrazione verso i curdo-turchi del sud-est. In quest’ottica gli interventi armati turchi in territorio siriano, ancora in questi giorni, sono stati sempre più caratterizzati dal chiaro obiettivo di ostacolare la nascita di un’entità autonoma curda, anche rischiando di compromettere i rapporti con gli Stati Uniti, che dell’alleanza curdo-siriana sono stati e sono il principale sponsor e protettore.

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Fonte Camera dei deputati – Attività parlamentare nella XVII Legislatura

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